SCHELETRI NELL'ARMADIO
Perna: Prodi al Quirinale? Dalle Br al Kgb, passando per De Benedetti e Agnelli: perché Romano non può andare al Quirinale
Quel preclaro inquilino del Quirinale che fu Luigi Einaudi aveva per motto: «Conoscere per deliberare». Ossia decidere con cognizione di causa, mai alla cieca. Poiché diversi vorrebbero che tra un mese a occupare l'alto seggio sia Romano Prodi, propongo einaudianamente di conoscerlo meglio per giudicare se sia idoneo. L’emiliano Prodi, già presidente Ue e due volte premier, ha avuto una carriera di tutto rispetto, conta illustri amicizie nel vasto mondo, non è incorso in grossi inciampi nonostante sia sulla breccia da quarant’anni. E, dato che lassù ci piacciono anzianotti, è anche venerando al punto giusto, con le sue 75 primavere. Difetta invece della neutralità che sarebbe così bella in chi sta sul Colle. È infatti accanito partigiano della sinistra di cui è stato campione contro il Cav, da lui battuto ben due volte (1996 e 2006). Tuttavia, il vero problema di Prodi è l’ambiguità che si annida tra le pieghe della sua personalità.
Tutti conoscono la seduta spiritica del 2 aprile 1978 che si svolse nei pressi di Bologna durante il rapimento Moro. Una tazzina di caffè, mossa dagli spiriti, batté la parola «Gradoli» in risposta alla domanda: «Dov’è che le Br tengono sequestrato Moro?». L’indomani, Prodi corse nella sede Dc romana ed espose la sentenza del tavolino. La notizia si rivelò esatta poiché Moro era effettivamente stato prigioniero in uno stabile di via Gradoli a Roma. A causa di equivoci però, l’imbeccata non bastò a salvare la vita dell’ostaggio. Ma questa è un’altra storia. Il nodo è che Prodi ha sempre sostenuto, nonostante l’infantilismo della scusa, di avere saputo unicamente dagli spiriti il luogo del sequestro. Nessuno gli ha mai creduto pensando invece che coprisse un informatore in carne e ossa. I più - da Andreotti, al ds Pellegrino, all’ex vicepresidente del Csm, Galloni - ipotizzarono che la soffiata fosse venuta dai collettivi affini alle Br dell’Università felsinea di cui Prodi era esimio docente. Un sospetto sulfureo con il quale il Nostro convive senza farsi uscire un fiato da oltre quarant’anni.
Prodi ha continuato a fare lo gnorri pure quando, nel 2005, emerse che nel rapimento Moro c’era forse lo zampino del Kgb. Qui si apre il capitolo dei presunti rapporti tra Romano e lo spionaggio sovietico. Un dossier che si è infittito nell’ultimo decennio. Per ragioni di spazio, basterà riferire che l’ex spia dell’Urss, Alexander Litvinenko (poi uccisa a Londra col polonio), avrebbe detto: «Il nostro agente in Italia è Prodi» e che un altro ex Kgb, Oleg Gordievsky, dichiarò in un’intervista al sen. Paolo Guzzanti, già presidente della Commissione Mitrokin: «Non ho mai saputo se Prodi fosse o no reclutato dal Kgb ma, tra il 1981 e 1982, nel Kgb era popolarissimo: lo trovavano in sintonia e dalla parte dell’Unione sovietica». Mi chiedo come si concilino questi risvolti da spy story con le ambizioni quirinalizie del nostro eroe, rimaste intatte anche dopo la clamorosa bocciatura a Camere riunite del 2013. Speriamo ci si rifletta e passiamo al resto. Il prof Prodi, dopo essere stato ministro dell’Industria in quota dc all’età di 39 anni, fu a lungo presidente dell’Iri, il falansterio dell’industria di stato. Un settennato - 1982-1989 - denso di storie. Al termine, si vantò in tutte le salse di avere risanato l’Istituto, riportandolo in utile dopo decenni. Ma Enrico Cuccia, il gran vegliardo della finanza, lo rimbeccò: «Ha solo imputato a riserve le perdite della siderurgia, perdendo come negli anni precedenti». Un modo dotto di dargli del millantatore. Quello che fece, in realtà, fu altro: utilizzare il suo immenso potere per favorire, con i soldi di tutti, chi piaceva a lui. Nell’ordine: Carlo De Benedetti, suo amico personale; Gianni Agnelli, icona dei poteri forti; se stesso.
L’ingegnere De Benedetti, proprietario del gruppo Espresso, gli fu graziosamente presentato da Eugenio Scalfari, che lo considerava il «Cavaliere bianco» dell’imprenditoria italiana. Ossia, un puro tra manigoldi. L’Ingegnere dette immediata prova del suo candore chiedendo a Prodi di vendergli a prezzi stracciati la Sme, holding alimentare dell’Iri. Romano gliela offrì per 497 miliardi di lire. Un regalo. Tanto che, scoperta la tresca, il governo Craxi (siamo nel 1985), mandò il piano all’aria. Un retroscena illustra la portata dell’inghippo sventato in extremis. Prima dell’Ingegnere c’era stata infatti un’offerta della Heinz. Fu il ministro liberale, Renato Altissimo, a parlare a Prodi dell’interesse della multinazionale. Romano però fece l’offeso: «Neppure alla lontana c’è l’ipotesi di una vendita della Sme. Hai idea del prezzo? Stiamo parlando di millecinquecento miliardi». Il mese dopo, saltò fuori l'affare con De Benedetti per una cifra tre volte inferiore. Altissimo, inviperito, aggredì Prodi: «Perché a me hai detto no e a Carlo sì?». «Perché tu non hai il taglietto sul pisello come lui», rispose l’altro beffardo. Garbata allusione alla circoncisione di De Benedetti e all’impossibilità di dire no all’onnipotente, quanto fantomatica, lobby ebraica. Se Altissimo gli avesse anche chiesto perché valutando la Sme 1500 miliardi in maggio, fosse disposto a venderla in giugno per 497, la risposta sarebbe stata oltremodo interessante. Ma non lo fece.
Analogo è il maneggio con gli Agnelli. La Fiat voleva l’Alfa Romeo, da tempo irizzata, per conquistare il monopolio nazionale dell’auto. Prodi gliela vendette ignorando un’offerta della Ford che aveva gettato sul piatto più soldi e garanzie. La Fiat, in seguito, non mantenne le promesse occupazionali. I favori di Prodi ai reali torinesi continuarono anche ai tempi della sua prima presidenza del consiglio (1996-1998). Favorì l’impossessamento di Telecom da parte dell’Ifil di Umberto Agnelli e si inventò la rottamazione: lascia l’auto vecchia per la nuova e avrai lo sconto. A spese di Pantalone. Prodi, infine, dall’alto del suo scranno di presidente dell’Iri, favorì se stesso. Un anno prima di assumere la carica nell’Istituto, Romano aveva fondato Nomisma, società di consulenza economica. Un gruppo di teste d’uovo con sede a Bologna, caro arrabbiato ma assai apprezzato. Tanto che lo stesso Iri preprodiano se ne era avvalso. Con l’arrivo di Prodi però, le consulenze di Nomisma alle consociate Iri -Sip, Italsider, Italstrade, ecc- si moltiplicarono in modo sospetto. Tanto che il pm romano, Luciano Infelisi, ipotizzò l’interesse privato in atti d’ufficio. Dall’indagine emerse che Prodi, nonostante fosse a capo dell’Iri, presiedeva ancora il consiglio scientifico di Nomisma. Il pm lo rinviò a giudizio. Tre anni dopo, il giudice Mario Casavola lo prosciolse. Ma con una motivazione al cianuro. «È indubbio - scrisse la toga - che alcune commesse furono volute da Prodi per aiutare Nomisma». Tuttavia, non c’è il reato. E perché? Per un tipico cavillo giuridico. Non fu infatti l’Iri presieduta dall’imputato a rivolgersi a Nomisma, ma furono le singole controllate a farlo. Scorretto sì, punibile no. Lo vogliamo davvero sul Colle un tipo così?
Tutti conoscono la seduta spiritica del 2 aprile 1978 che si svolse nei pressi di Bologna durante il rapimento Moro. Una tazzina di caffè, mossa dagli spiriti, batté la parola «Gradoli» in risposta alla domanda: «Dov’è che le Br tengono sequestrato Moro?». L’indomani, Prodi corse nella sede Dc romana ed espose la sentenza del tavolino. La notizia si rivelò esatta poiché Moro era effettivamente stato prigioniero in uno stabile di via Gradoli a Roma. A causa di equivoci però, l’imbeccata non bastò a salvare la vita dell’ostaggio. Ma questa è un’altra storia. Il nodo è che Prodi ha sempre sostenuto, nonostante l’infantilismo della scusa, di avere saputo unicamente dagli spiriti il luogo del sequestro. Nessuno gli ha mai creduto pensando invece che coprisse un informatore in carne e ossa. I più - da Andreotti, al ds Pellegrino, all’ex vicepresidente del Csm, Galloni - ipotizzarono che la soffiata fosse venuta dai collettivi affini alle Br dell’Università felsinea di cui Prodi era esimio docente. Un sospetto sulfureo con il quale il Nostro convive senza farsi uscire un fiato da oltre quarant’anni.
Prodi ha continuato a fare lo gnorri pure quando, nel 2005, emerse che nel rapimento Moro c’era forse lo zampino del Kgb. Qui si apre il capitolo dei presunti rapporti tra Romano e lo spionaggio sovietico. Un dossier che si è infittito nell’ultimo decennio. Per ragioni di spazio, basterà riferire che l’ex spia dell’Urss, Alexander Litvinenko (poi uccisa a Londra col polonio), avrebbe detto: «Il nostro agente in Italia è Prodi» e che un altro ex Kgb, Oleg Gordievsky, dichiarò in un’intervista al sen. Paolo Guzzanti, già presidente della Commissione Mitrokin: «Non ho mai saputo se Prodi fosse o no reclutato dal Kgb ma, tra il 1981 e 1982, nel Kgb era popolarissimo: lo trovavano in sintonia e dalla parte dell’Unione sovietica». Mi chiedo come si concilino questi risvolti da spy story con le ambizioni quirinalizie del nostro eroe, rimaste intatte anche dopo la clamorosa bocciatura a Camere riunite del 2013. Speriamo ci si rifletta e passiamo al resto. Il prof Prodi, dopo essere stato ministro dell’Industria in quota dc all’età di 39 anni, fu a lungo presidente dell’Iri, il falansterio dell’industria di stato. Un settennato - 1982-1989 - denso di storie. Al termine, si vantò in tutte le salse di avere risanato l’Istituto, riportandolo in utile dopo decenni. Ma Enrico Cuccia, il gran vegliardo della finanza, lo rimbeccò: «Ha solo imputato a riserve le perdite della siderurgia, perdendo come negli anni precedenti». Un modo dotto di dargli del millantatore. Quello che fece, in realtà, fu altro: utilizzare il suo immenso potere per favorire, con i soldi di tutti, chi piaceva a lui. Nell’ordine: Carlo De Benedetti, suo amico personale; Gianni Agnelli, icona dei poteri forti; se stesso.
L’ingegnere De Benedetti, proprietario del gruppo Espresso, gli fu graziosamente presentato da Eugenio Scalfari, che lo considerava il «Cavaliere bianco» dell’imprenditoria italiana. Ossia, un puro tra manigoldi. L’Ingegnere dette immediata prova del suo candore chiedendo a Prodi di vendergli a prezzi stracciati la Sme, holding alimentare dell’Iri. Romano gliela offrì per 497 miliardi di lire. Un regalo. Tanto che, scoperta la tresca, il governo Craxi (siamo nel 1985), mandò il piano all’aria. Un retroscena illustra la portata dell’inghippo sventato in extremis. Prima dell’Ingegnere c’era stata infatti un’offerta della Heinz. Fu il ministro liberale, Renato Altissimo, a parlare a Prodi dell’interesse della multinazionale. Romano però fece l’offeso: «Neppure alla lontana c’è l’ipotesi di una vendita della Sme. Hai idea del prezzo? Stiamo parlando di millecinquecento miliardi». Il mese dopo, saltò fuori l'affare con De Benedetti per una cifra tre volte inferiore. Altissimo, inviperito, aggredì Prodi: «Perché a me hai detto no e a Carlo sì?». «Perché tu non hai il taglietto sul pisello come lui», rispose l’altro beffardo. Garbata allusione alla circoncisione di De Benedetti e all’impossibilità di dire no all’onnipotente, quanto fantomatica, lobby ebraica. Se Altissimo gli avesse anche chiesto perché valutando la Sme 1500 miliardi in maggio, fosse disposto a venderla in giugno per 497, la risposta sarebbe stata oltremodo interessante. Ma non lo fece.
Analogo è il maneggio con gli Agnelli. La Fiat voleva l’Alfa Romeo, da tempo irizzata, per conquistare il monopolio nazionale dell’auto. Prodi gliela vendette ignorando un’offerta della Ford che aveva gettato sul piatto più soldi e garanzie. La Fiat, in seguito, non mantenne le promesse occupazionali. I favori di Prodi ai reali torinesi continuarono anche ai tempi della sua prima presidenza del consiglio (1996-1998). Favorì l’impossessamento di Telecom da parte dell’Ifil di Umberto Agnelli e si inventò la rottamazione: lascia l’auto vecchia per la nuova e avrai lo sconto. A spese di Pantalone. Prodi, infine, dall’alto del suo scranno di presidente dell’Iri, favorì se stesso. Un anno prima di assumere la carica nell’Istituto, Romano aveva fondato Nomisma, società di consulenza economica. Un gruppo di teste d’uovo con sede a Bologna, caro arrabbiato ma assai apprezzato. Tanto che lo stesso Iri preprodiano se ne era avvalso. Con l’arrivo di Prodi però, le consulenze di Nomisma alle consociate Iri -Sip, Italsider, Italstrade, ecc- si moltiplicarono in modo sospetto. Tanto che il pm romano, Luciano Infelisi, ipotizzò l’interesse privato in atti d’ufficio. Dall’indagine emerse che Prodi, nonostante fosse a capo dell’Iri, presiedeva ancora il consiglio scientifico di Nomisma. Il pm lo rinviò a giudizio. Tre anni dopo, il giudice Mario Casavola lo prosciolse. Ma con una motivazione al cianuro. «È indubbio - scrisse la toga - che alcune commesse furono volute da Prodi per aiutare Nomisma». Tuttavia, non c’è il reato. E perché? Per un tipico cavillo giuridico. Non fu infatti l’Iri presieduta dall’imputato a rivolgersi a Nomisma, ma furono le singole controllate a farlo. Scorretto sì, punibile no. Lo vogliamo davvero sul Colle un tipo così?
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