MANCINO AL TELEFONO QUANDO LA TRATTATIVA ARRIVÒ AL QUIRINALE-Marco Travaglio-Il Fatto Q.-2 gennaio 2015
Nemmeno al passo d’addio Giorgio Napolitano ha voluto dissipare le nebbie che avvolsero la sua figura dopo il 13 giugno 2012, quando la Procura di Palermo depositò gli atti di fine indagine sulla trattativa Stato-mafia. E si scoprì che il Quirinale, per conto di Nicola Mancino, aveva tramato contro l’inchiesta e i pm che la conducevano (Ingroia, Di Matteo, Sava, Del Bene e Tartaglia). Il terrore corre sul filo. Le interferenze del Colle emergono dalle telefonate intercettate dal novembre 2011 all’aprile 2012 sui telefoni di Mancino, sospettato e poi indagato per falsa testimonianza: nove conversazioni con il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio, e quattro con Napolitano. Le prime vengono depositate agli atti e, non più segrete, finiscono sui giornali. Le seconde vengono stralciate e neppure trascritte, ma solo ascoltate dai pm, che le valutano penalmente irrilevanti e decidono di non depositarle, ma di chiudere in cassaforte il Cd-rom che le contiene in attesa che il Gip – come prevede la legge – le faccia ascoltare ai legali dei 12 imputati e, se neppure questi le ritengono utili per la difesa dei clienti, le distrugga. Così riescono miracolosamente a tenerle segrete, con la scelta più “garantista” possibile verso il capo dello Stato. Questi però, per tutta risposta, il 16 luglio solleva contro di loro un conflitto di attribuzioni dinanzi alla Consulta, accusandoli di una fantomatica “lesione delle prerogative costituzionali del Presidente” – un colpo di Stato – per aver ascoltato e valutato le registrazioni anziché distruggerle subito a scatola chiusa. Il suo obiettivo è esplicito: ottenere un ordine d’immediata distruzione, prima e senza che le conversazioni vengano ascoltate dagli avvocati, che le racconterebbero ai giornalisti, che le racconterebbero ai cittadini. Napolitano giura di non farlo perché abbia qualcosa da nascondere, ma per il dovere – e qui cita l’incolpevole Luigi Einaudi – di “trasmettere al successore, immuni da qualsiasi incrinatura, le facoltà che la Costituzione gli attribuisce”. Bugia nera. Non è la prima volta che un presidente italiano viene casualmente ascoltato sul telefono intercettato di un indagato: è già accaduto nel 1993 a Scalfaro, che parlava con un banchiere novarese, inquisito a Milano per bancarotta; e nel 2009 allo stesso Napolitano, che s’informava sul terremoto de L’Aquila da Guido Bertolaso, indagato a Firenze per gli appalti del G-8 alla Maddalena. In entrambi i casi, i magistrati fecero trascrivere e depositarono le conversazioni con le voci dei presidenti, che divennero pubbliche. Ma né Scalfaro né Napolitano obiettarono alcunché, né sollevarono conflitti con i pm. Forse perché non avevano nulla da nascondere. Se dunque stavolta Napolitano scatena la guerra termonucleare è perché vuole nascondere qualcosa di ciò che disse a Mancino. Che cosa? Non lo sapremo mai: il 22 aprile 2013, poche ore prima del suo discorso di reinsediamento, i giudici sono costretti dalla Consulta a distruggere i Cd-rom che custodiscono quelle parole segrete. Gli unici che potrebbero ancora legittimamente svelarle sono Mancino e Napolitano. Ma tacciono. Ricatto panoramico. Il 30 agosto 2012 il settimanale berlusconiano Panorama ricostruisce le quattro conversazioni in un articolo di Giovanni Fasanella. Il quale, per coprire la sua fonte, cita un editoriale di Ezio Mauro su Repubblica (“Quante telefonate avrà dovuto fare il capo dello Stato nelle due settimane che han preceduto le dimissioni di Berlusconi? Se quelle conversazioni, che hanno preceduto e preparato l’epilogo italiano di vent’anni di berlusconismo, fossero diventate pubbliche, quell’esito sarebbe stato più facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a rivelarsi impossibile?”); e due ancor più neutri del sottoscritto sul Fatto e di Adriano Sofri sul Foglio. E assicura di essersi limitato a cercare “conferme” a questi articoli e di averle trovate da “diverse fonti… nei giorni che hanno preceduto gli interventi di Mauro, Travaglio e Sofri”. Strano: ha cercato conferme ad articoli non ancora pubblicati. E le sue fonti preventive gli avrebbero “confermato” ciò che nessuno dei tre ha mai scritto: “le telefonate… risalirebbero al periodo dell’ultima crisi di governo (agli sgoccioli del 2011) con corollario di giudizi su diversi protagonisti di quella fase, alcuni dei quali molto ruvidi”. Napolitano avrebbe sparlato con Mancino di Berlusconi, appena dimessosi (“gli verrebbe addebitata la responsabilità di aver appannato l’immagine internazionale dell’Italia”); ma anche di Antonio Di Pietro (“per quel populismo giudiziario che da 15 anni condiziona gran parte del centrosinistra, impedendo la crescita di una cultura garantista e riformista”); e degli odiati pm di Palermo, Ingroia in testa. Di qui la “preoccupazione del Quirinale” per “le conseguenze sugli assetti politico-istituzionali interni e sui rapporti internazionali dell’Italia se tutte le intercettazioni fossero divulgate nei dettagli”. Ma, se si tratta solo di apprezzamenti anche “ruvidi” su B., Di Pietro e Ingroia, che c’entrano i “rapporti internazionali dell’Italia”? Il Presidente s’è forse lasciato andare a confidenze su istituzioni e capi di governo stranieri, attivissimi nell’auspicare il cambio della guardia fra il Cavaliere e Monti? L’impressione è che Panorama sappia più di ciò che scrive, ma si limiti a lasciarlo intendere, riservandosi magari di tornarci più nel dettaglio in seguito: siamo agli sgoccioli del governo Monti, le elezioni s’avvicinano, il Caimano si gioca tutto e un Quirinale sotto scacco gli fa un gran comodo. Segretissimo. In quell’estate sono pochi quelli pronti a giurare che il segreto sulle quattro telefonate resisterà a lungo. Troppe persone le hanno ascoltate o maneggiate: gli investigatori della Dia, i magistrati, il personale di cancelleria e segreteria, l’impresa appaltatrice del servizio intercettazioni, le compagnie telefoniche, forse qualche spione italiano e non solo (lo scandalo Datagate rivela che le barbefinte Usa dell’Nsa controllavano 34 capi di governo, compresi i nostri). Senza scordare Mancino. Eppure, nel Paese dei segreti di Pulcinella, non una sillaba delle quattro telefonate romperà la cortina del top secret. Se qualcuno vuol sapere che cos’è il vero Potere, è accontentato. Ma per conoscere il ruolo di Napolitano basta ascoltare attentamente le telefonate fra Mancino e D’Ambrosio. Questi è un magistrato che a fine anni 80 lavora all’Alto commissariato antimafia con Bruno Contrada (poi condannato a 9 anni per mafia) e Francesco Di Maggio (sospettato di aver avuto un ruolo nella Trattativa); poi passa al ministero della Giustizia con Martelli e Conso (1991- ‘ 93). Intanto Mancino è ministro dell’Interno e Napolitano presidente della Camera, poi nel ‘ 96 i ruoli s’invertono: Mancino al Senato, Napolitano al Viminale e D’Ambrosio di nuovo in via Arenula con i governi dell’Ulivo. Dal 2006 al 2010 Napolitano e Mancino si ritrovano al Csm, presidente e vicepresidente, mentre D’Ambrosio è al Quirinale. Nel suo ufficio vanno a lavorare la figlia adottiva di Mancino, Chiara, e il di lei marito. Un bell’intreccio che spiega la dimestichezza-complicità della Triade al telefono. “Il Presidente sa tutto”. Nel dicembre 2011 Mancino, sentito come teste a Palermo, si lamenta dei pm con D’Ambrosio e rivendica un presunto “diritto a una tutela”. Incontra il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso e gli chiede di intervenire sulla Procura. Grasso però si defila: “Non ho poteri di avocazione”, cioè non può scippare l’inchiesta a Palermo. Nel marzo 2012 il pressing di Mancino diventa stalking. L’ex ministro si dice “messo in un angolo”, “distrutto”, “emarginato anche nel Pd”. Vuole “evitare un ulteriore confronto con Martelli”, che smentisce due punti chiave della sua versione sulla Trattativa. Poi Mancino lancia a D’Ambrosio un messaggio vagamente ricattatorio: “O tuteliamo lo Stato, o se qualcuno ha fatto qualcosa poteva dire ‘ ma io debbo avere tutte le garanzie anche per quanto riguarda la rilevanza statuale delle cose che sto facendo’…”. Traduzione possibile dal mancinese: se qualcuno, per conto dello Stato, ha partecipato alla Trattativa, o l’ha assecondata, o coperta, ora che si ritrova nei guai con la giustizia dev’essere protetto dal vertice dello Stato; altrimenti – sottinteso – potrebbe anche parlare e fare altri nomi (lui teme il coinvolgimento di Scalfaro). D’Ambrosio intanto chiama in causa Napolitano: “Posso parlare col Presidente, perché se l’ha presa a cuore, la questione. Io ho parlato con il Presidente e ho parlato anche con Grasso… Probabilmente il Presidente parlerà con Grasso nuovamente… Vediamo un attimo di vedere con Esposito”. Vitaliano Esposito è il Pg della Cassazione, diretto superiore di Grasso: “Il Presidente parlava di come la Procura nazionale sta dentro la Procura generale, di vedere un secondo con Esposito… Io riparlerò con Grasso perché il Presidente mi ha detto di risentirlo”. E ancora: “Qui il problema che si pone è il contrasto di posizione ribadito pure da Martelli… tant’è che il Presidente ha detto: ma lei ha parlato con Martelli?”. Una proposta talmente indecente da far arrossire persino Mancino: “Ma io non è che posso parlare io con Martelli!”. Già, un teste non può contattarne un altro in contrasto con lui per appianare le divergenze: è un reato, si chiama inquinamento delle prove, ma che idee vengono al Presidente? Il 3 aprile Mancino scrive una lettera a Esposito ma, anziché spedirla, la gira a D’Ambrosio usando il Quirinale come pony express. Napolitano, anziché rimandarla al mittente, fa da postino e la inoltra a Esposito, accompagnata da una nota del segretario generale Donato Marra: “Per incarico del Presidente della Repubblica trasmetto la lettera con la quale il Senatore Nicola Mancino si duole del fatto che non siano state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla ‘ trattativa’… Il capo dello Stato auspica possano essere prontamente adottate iniziative… al fine di dissipare le perplessità… Il Presidente Napolitano le sarà grato di ogni consentita notizia”. Lettera segreta a tutti i cittadini (e anche al Csm, di cui Napolitano è presidente), fuorché a Mancino. D’Ambrosio infatti gliela legge e poi gliela spiega: “Abbiamo parlato pure con Ciani (Gianfranco, il nuovo Pg che sta per subentrare al pensionato Esposito, ndr) e con Ciccola (Pasquale Ciccolo, sostituto Pg, ndr)… Hanno voluto la lettera così fatta per sentirsi più forti… Il Presidente ha rilevato e percepisce questa mancanza di coordinamento e ti dice: esercita questi tuoi poteri anche nei confronti di Grasso. Perché qui il problema vero… Grasso si copre”. È la risposta al ricatto di Mancino: “Quindi noi non abbiamo mandato lei allo sbaraglio… Adesso lei lo sa… quello che noi, che il Presidente auspica… Lui sa tutto. E che, non lo sa? L’ha detto lui: ‘ Io voglio che la lettera venga inviata, ma anche con la mia condivisione’”. Il 19 aprile Ciani obbedisce e convoca Grasso prospettandogli l’avocazione dell’inchiesta. Ma Grasso ribatte di non avere poteri di avocazione e comunque non ne ricorrono gli estremi. Quindi il Colle e Ciani non possono chiedergli ciò che gli chiedono, e usano tesi infondate per assecondare Mancino. Un abuso tira l’altro. È dunque per ordine di Napolitano che D’Ambrosio dà tanta corda a Mancino. Lo ripete in ogni telefonata. Millanterie? Il 18 giugno 2012 D’Ambrosio rassegna le dimissioni e Napolitano le respinge, confermandogli “affetto e stima intangibili” per “le sue condotte ineccepibili”. Dunque è tutto vero: fu Napolitano il regista delle manovre contro l’inchiesta sulla Trattativa. Resta da capire perché: quali armi di pressione riteneva di possedere Mancino, visto che si rivolse proprio a lui nella certezza di ottenere udienza, obbedienza, silenzio, e di non essere denunciato alla magistratura. È quella risposta che spiega la catena di abusi di potere del Quirinale: il conflitto alla Consulta, la mancata solidarietà ai pm attaccati dai politici e condannati a morte da Riina e Messina Denaro, i procedimenti disciplinari al Csm, le scuse imbarazzanti per non testimoniare davanti alla Corte d’Assise, giù giù fino alle pressioni sul Csm per mandare a Palermo un procuratore – Franco Lo Voi – privo di titoli, ma molto gradito alla politica. Molti, nelle alte sfere, conoscono quella risposta. Chissà se un giorno il pensionato Napolitano, o chi per lui, la darà anche a noi.
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