Il gip del Tribunale di Napoli Alberto Capuano utilizza un'espressione molto forte: «mercato della sentenza». Ma a scorrere l'una dopo l'altra le oltre 1.200 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare che quest'oggi ha raggiunto sessanta persone, tra cui i vertici del gruppo imprenditoriale Ragosta, esponenti del clan camorristico Fabbrocino e addirittura 16 giudici tributari, tanto clamore può apparire assolutamente legittimo.
Ne esce fuori un mondo alla rovescia in cui i giudici tributari, quando mettono via la toga, esercitano attività di consulenza fiscale per privati. E - neanche a dirlo - tutto rigorosamente «a nero». E così si alimenta «un perverso intreccio» di favori reciproci «con danni incalcolabili per l'Erario». Tant'è che agli indagati coinvolti nell'inchiesta viene contestato il reato di associazione per delinquere.
Professionisti sotto inchiesta. Tra i professionisti coinvolti, le posizioni di maggiore rilevanza penale sono quelle di Anna Maria D'Ambrosio, Vincenzo Esposito e Massimo Massaccesi, tutti finiti in carcere. Ai domiciliari, invece, si trovano ora Angelo Delle Cave, Pasquale Riccio, Francesco Rippa, Corrado Rossi, Paolo Rossi, Francesco Sapignoli, Eligio Leonardo Scinto, Graziano Serpico, Lucio Stabile, Roberto Trivellini, Umberto Vignati, Raffaele D'Avino e Aldo Del Vecchio. E si tratta di professionisti incensurati e insospettabili.
Tutti gli uomini di Ragosta. L'indagine della procura di Napoli ha accertato che Felice Ragosta, il patron della famiglia di imprenditori al centro dell'inchiesta, aveva come consulente fiscale la stessa Anna Maria D'Ambrosio, commercialista e giudice tributario, la quale avrebbe sfruttato le proprie «entrature» per favorire il suo cliente. Un sistema, quello descritto dai magistrati, «perfettamente rodato e collaudato»: scambio di favori, aggiustamenti di sentenze alcune delle quali redatte dal consulente della parte privata.
Secondo gli inquirenti, tra coloro che scrivevano le sentenze, poi firmate dai giudici, vi era anche l'avvocato Enrico Potito, titolare della cattedra di Diritto tributario alla Federico II di Napoli, anch'egli finito agli arresti. Nell'inchiesta risultano coinvolti anche esponenti dell'Ufficio del garante del contribuente per la Campania, nato appunto per garantire un rapporto trasparente tra fisco e contribuente, che avrebbero invece agito per favorire gli evasori fiscali.
Una maxi-evasione da 146 milioni. L'indagine ha preso il via dal ricorso effettuato dal gruppo Ragosta contro la contestazione, avvenuta dopo una serie di controlli fiscali, di una maxi-evasione da 146 milioni. Le intercettazioni predisposte dalla magistratura partenopea hanno mostrato che almeno trenta sentenze, emesse non solo a favore dei Ragosta, risulterebbero sospette. Secondo il procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico che regge la procura di Napoli, il «sistema sarebbe molto più ampio, siamo appena all'inizio del lavoro investigativo».
Questi «girano armati». Quanto all'intreccio tra clan e imprenditori, a indicare il fronte investigativo le rivelazioni di alcuni pentiti ma anche una clamorosa intercettazione telefonica risalente al 2004, quando un consulente dell'Arpac, l'agenzia regionale di protezione ambientale in Campania, cercava locali per uffici e si rivolse alla società immobiliare dei Ragosta. «A Caserta – disse sfogandosi al telefono – c'è un casino perché si sono messi d'accordo con quelli della Immobilgest, camminano con le pistole, proprio io ho visto Ragosta armato».
Certe dinamiche dovevano essere evidenti: «La diffusa convinzione, la percezione, da parte dei soggetti che entravano in rapporti con loro, di avere a che fare con una importante componente della camorra campana. Evidenti le ricadute in tema di capacità di intimidazione, assoggettamento, omertà, che derivano da questa considerazione», scrive adesso sempre il gip Capuano. Che a partire da quella famosa telefonata di sette anni fa si è trovato a scoperchiare un complicato intrigo di imprese, clan e consulenze tributarie