Nel silenzio generale nei giorni scorsi alla Banca d’Italia è stato recapitato un atto di pignoramento per un importo miliardario, causato da una sentenza di condanna dello Stato nei confronti in un imprenditore marchigiano. La cifra reclamata dal creditore è di 1,2 miliardi, interessi esclusi. L’Avvocatura dello Stato ha chiesto la sospensione del pagamento, poiché dall’esecuzione potrebbe «derivare grave e irreparabile danno». La Corte di appello di Roma dovrà decidere nelle prossime ore se sospendere questo salasso o costringere il debitore, il ministero delle Infrastrutture, a pagare sull’unghia un importo che da solo vale una piccola manovra finanziaria. Un vagone di banconote da 500 euro che potrebbe far passare in secondo piano persino l’inchiesta di Firenze sulle Grandi opere. Sarà per questo che a qualcuno non sono andate giù le interviste rilasciate l’altro ieri dall’ex ministro Antonio Di Pietro, in cui ha dichiarato, urbi et orbi, di essere stato l’unico ad avversare Ercole Incalza, il grand commis arrestato lunedì per le presunte irregolarità negli appalti pubblici. Infatti nel vecchio dicastero di Di Pietro sono in molti ad attribuirgli la responsabilità di quel pignoramento miliardario. Un debito che secondo l’Avvocatura dello Stato e altri esperti avrebbe potuto essere meno oneroso.
Ma partiamo dall’inizio. Negli anni ’80 l’imprenditore Edoardo Longarini ottiene la concessione per la ricostruzione postbellica (per la verità un po’ ritardata) di Ancona, Macerata e Ariano Irpino e con la sua Adriatica costruzioni propone opere per centinaia di miliardi di lire in regime di monopolio. Successivamente lo Stato, adducendo la mancanza di fondi, si rifiuta di emettere il decreto di affidamento per quei lavori. Inizia una lunghissima querelle giudiziaria. Nel 2005 la Corte d’appello di Roma, per quanto riguarda i lavori di Ancona, dopo l’ennesimo rimpallo, ordina al ministero «di risarcire a Longarini Edoardo i danni (…) nella misura che sarà determinata in separato giudizio».
A questo punto bisogna stabilire il dovuto per quei lavori mai fatti. Le strade sono due: attendere un’ulteriore causa civile a costo zero e con tempi più lunghi o rivolgersi a un dispendioso e più solerte collegio arbitrale. Nel giugno 2006 Longarini, attraverso i suoi legali, chiede una convezione d’arbitrato ad hoc. Celestino Lops, allora direttore generale per l’edilizia statale, paventando l’intervento della Corte dei conti, interroga il ministro Di Pietro: «Considerata la delicatezza della questione, si chiede un indirizzo in ordine all’accettazione della proposta» scrive. Per lui ci sono rischi concreti di una contestazione di danno erariale. Per poi annotare a mano: «25 luglio 2006, ore 12.50: conferito telefonicamente con il capo di gabinetto, Vincenzo Fortunato, che mi ha espresso il parere favorevole del signor ministro».
L’anno successivo Longarini torna alla carica con la richiesta di un altro giudizio privato, questa volta per la vicenda di Macerata. Il 25 giugno 2007 il ministro, senza attendere il parere dell’Avvocatura dello Stato, sceglie il proprio arbitro di fiducia: l’avvocato Domenico Condello, dipietrista doc. Il giorno successivo l’avvocato dello Stato Marco Corsini contraddice Di Pietro e “declina”, come gli consente la legge, la competenza arbitrale, perché «è un giudizio sempre sfavorevole per l’amministrazione, soprattutto in controversie di così grande valore». Ma il 3 luglio il collegio è già costituito, contro l’avviso tecnico-processuale dell'Avvocatura. «Fu il ministro Di Pietro in persona a prendere questa decisione e lo fece in tempi così rapidi da vanificare la declinatoria e tutte le eccezioni che avevo sollevato. Una celerità che non avevo mai sperimentato nella mia esperienza professionale.
Senza contare che il ministro nominò subito l’arbitro privato di sua competenza, senza consultarsi, com’è prassi, con i legali dello Stato» dichiarò Corsini al cronista. Dopo pochi mesi il collegio viene sciolto per le dimissioni del presidente e i contenziosi di Macerata e Ariano Irpino vengono accorpati. L’arbitro del ministero diventa l’avvocato Ignazio Messina, che nel 2013 diventerà segretario dell’Italia dei Valori. È evidente che a Di Pietro piace fare tutto tra amici. «In fondo se bisogna pagare le odiose parcelle, è meglio che a giovarsene siano uomini integerrimi come i dipietristi» deve aver pensato l’ex mastino di Mani Pulite. Che nel settembre 2007, in un’intervista, dichiarerà guerra al sistema arbitrale che costa 250 milioni l’anno di onorari e «che non garantisce trasparenza e penalizza sempre la pubblica amministrazione».
In effetti tra il 2009 e 2011 il collegio arbitrale chiamato a dirimere la questione di Macerata e Ariano Irpino dà torto al governo e ordina allo Stato di pagare quasi 300 milioni di euro, pronto cassa. A quel punto resta in sospeso solo l’arbitrato di Ancona. Nel luglio del 2012 il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, con una direttiva interna, sconsiglia fortemente questa forma di risoluzione dei contenziosi e ne evidenzia «l’elevato costo per compensi e la pressoché totale soccombenza delle amministrazioni pubbliche». Mentre gli arbitri stanno per spedire al ministero il nuovo conto da 1,2 miliardi, il governo fa approvare e convertire in legge un decreto che amplia retroattivamente le ipotesi di impugnabilità dei lodi. E così quando arriva la sentenza arbitrale, l’Avvocatura prova a opporsi utilizzando la nuova legge, ma il ricorso viene considerato inammissibile. Gli azzeccagarbugli dello Stato non si arrendono e si rivolgono alla Cassazione per contestare la decisione. In mezzo gli avvocati di Longarini chiedono l’esecuzione forzata e il pignoramento miliardario del malloppo dai forzieri della Banca d’Italia; l’immediata contromossa della difesa erariale è quella di rivolgersi alla Corte d’appello per far sospendere il pagamento, in attesa della pronuncia della Cassazione.
Il difensore di Longarini, il professor Giuseppe Greco, non condivide il tentativo disperato dello Stato di non pagare: «Vorrebbero ridiscutere la causa nel merito e far accogliere le proprie doglianze, ma il procedimento giudiziario è definito e intervenire con leggi retroattive nei processi, come si è tentato di fare, è anticostituzionale e va contro quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo». Ma lo Stato ha fatto appello al rischio di «danno irreparabile», sta piangendo miseria: «Il pagamento di una somma di denaro, tanto più da parte di uno Stato non al collasso, non può essere considerato irreparabile. Un miliardo è molto, ma al ministero ci sono stanziamenti per 12-13 miliardi l’anno. E poi con la logica del rischio di fallimento tutte le aziende private potrebbero smettere di pagare il dovuto. Ma questo non è consentito: per esempio dopo il lodo Mondadori il tribunale ha costretto la Fininvest a pagare centinaia di milioni. Forse lo Stato avrebbe dovuto pensare prima a chiudere questo contenzioso e ad accantonare le somme necessarie per provvedere a pagare il proprio debito, senza lasciarlo lievitare per 25 anni».
di Giacomo Amadori
Ma partiamo dall’inizio. Negli anni ’80 l’imprenditore Edoardo Longarini ottiene la concessione per la ricostruzione postbellica (per la verità un po’ ritardata) di Ancona, Macerata e Ariano Irpino e con la sua Adriatica costruzioni propone opere per centinaia di miliardi di lire in regime di monopolio. Successivamente lo Stato, adducendo la mancanza di fondi, si rifiuta di emettere il decreto di affidamento per quei lavori. Inizia una lunghissima querelle giudiziaria. Nel 2005 la Corte d’appello di Roma, per quanto riguarda i lavori di Ancona, dopo l’ennesimo rimpallo, ordina al ministero «di risarcire a Longarini Edoardo i danni (…) nella misura che sarà determinata in separato giudizio».
A questo punto bisogna stabilire il dovuto per quei lavori mai fatti. Le strade sono due: attendere un’ulteriore causa civile a costo zero e con tempi più lunghi o rivolgersi a un dispendioso e più solerte collegio arbitrale. Nel giugno 2006 Longarini, attraverso i suoi legali, chiede una convezione d’arbitrato ad hoc. Celestino Lops, allora direttore generale per l’edilizia statale, paventando l’intervento della Corte dei conti, interroga il ministro Di Pietro: «Considerata la delicatezza della questione, si chiede un indirizzo in ordine all’accettazione della proposta» scrive. Per lui ci sono rischi concreti di una contestazione di danno erariale. Per poi annotare a mano: «25 luglio 2006, ore 12.50: conferito telefonicamente con il capo di gabinetto, Vincenzo Fortunato, che mi ha espresso il parere favorevole del signor ministro».
L’anno successivo Longarini torna alla carica con la richiesta di un altro giudizio privato, questa volta per la vicenda di Macerata. Il 25 giugno 2007 il ministro, senza attendere il parere dell’Avvocatura dello Stato, sceglie il proprio arbitro di fiducia: l’avvocato Domenico Condello, dipietrista doc. Il giorno successivo l’avvocato dello Stato Marco Corsini contraddice Di Pietro e “declina”, come gli consente la legge, la competenza arbitrale, perché «è un giudizio sempre sfavorevole per l’amministrazione, soprattutto in controversie di così grande valore». Ma il 3 luglio il collegio è già costituito, contro l’avviso tecnico-processuale dell'Avvocatura. «Fu il ministro Di Pietro in persona a prendere questa decisione e lo fece in tempi così rapidi da vanificare la declinatoria e tutte le eccezioni che avevo sollevato. Una celerità che non avevo mai sperimentato nella mia esperienza professionale.
Senza contare che il ministro nominò subito l’arbitro privato di sua competenza, senza consultarsi, com’è prassi, con i legali dello Stato» dichiarò Corsini al cronista. Dopo pochi mesi il collegio viene sciolto per le dimissioni del presidente e i contenziosi di Macerata e Ariano Irpino vengono accorpati. L’arbitro del ministero diventa l’avvocato Ignazio Messina, che nel 2013 diventerà segretario dell’Italia dei Valori. È evidente che a Di Pietro piace fare tutto tra amici. «In fondo se bisogna pagare le odiose parcelle, è meglio che a giovarsene siano uomini integerrimi come i dipietristi» deve aver pensato l’ex mastino di Mani Pulite. Che nel settembre 2007, in un’intervista, dichiarerà guerra al sistema arbitrale che costa 250 milioni l’anno di onorari e «che non garantisce trasparenza e penalizza sempre la pubblica amministrazione».
In effetti tra il 2009 e 2011 il collegio arbitrale chiamato a dirimere la questione di Macerata e Ariano Irpino dà torto al governo e ordina allo Stato di pagare quasi 300 milioni di euro, pronto cassa. A quel punto resta in sospeso solo l’arbitrato di Ancona. Nel luglio del 2012 il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, con una direttiva interna, sconsiglia fortemente questa forma di risoluzione dei contenziosi e ne evidenzia «l’elevato costo per compensi e la pressoché totale soccombenza delle amministrazioni pubbliche». Mentre gli arbitri stanno per spedire al ministero il nuovo conto da 1,2 miliardi, il governo fa approvare e convertire in legge un decreto che amplia retroattivamente le ipotesi di impugnabilità dei lodi. E così quando arriva la sentenza arbitrale, l’Avvocatura prova a opporsi utilizzando la nuova legge, ma il ricorso viene considerato inammissibile. Gli azzeccagarbugli dello Stato non si arrendono e si rivolgono alla Cassazione per contestare la decisione. In mezzo gli avvocati di Longarini chiedono l’esecuzione forzata e il pignoramento miliardario del malloppo dai forzieri della Banca d’Italia; l’immediata contromossa della difesa erariale è quella di rivolgersi alla Corte d’appello per far sospendere il pagamento, in attesa della pronuncia della Cassazione.
Il difensore di Longarini, il professor Giuseppe Greco, non condivide il tentativo disperato dello Stato di non pagare: «Vorrebbero ridiscutere la causa nel merito e far accogliere le proprie doglianze, ma il procedimento giudiziario è definito e intervenire con leggi retroattive nei processi, come si è tentato di fare, è anticostituzionale e va contro quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo». Ma lo Stato ha fatto appello al rischio di «danno irreparabile», sta piangendo miseria: «Il pagamento di una somma di denaro, tanto più da parte di uno Stato non al collasso, non può essere considerato irreparabile. Un miliardo è molto, ma al ministero ci sono stanziamenti per 12-13 miliardi l’anno. E poi con la logica del rischio di fallimento tutte le aziende private potrebbero smettere di pagare il dovuto. Ma questo non è consentito: per esempio dopo il lodo Mondadori il tribunale ha costretto la Fininvest a pagare centinaia di milioni. Forse lo Stato avrebbe dovuto pensare prima a chiudere questo contenzioso e ad accantonare le somme necessarie per provvedere a pagare il proprio debito, senza lasciarlo lievitare per 25 anni».
di Giacomo Amadori
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